Convegno sul tema "Famiglia e lavoro. Dal conflitto a nuove sinergie"
Roma, 15 marzo 2006
Rivolgo il mio ringraziamento alla Fondazione Marco Biagi per avermi invitato a concludere i lavori odierni. Saluto le altre autorità presenti - Livia Turco, collega in Parlamento; il sottosegretario al Ministero del welfare, Maurizio Sacconi; il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo; il sindaco di Roma, Walter Veltroni - e con loro tutti gli intervenuti.
Sono lieto di avere nuovamente l'occasione di ricordare Marco Biagi insieme a chi più gli è stato vicino: gli amici, gli studenti e tutti coloro che si sono formati alla sua scuola di brillante ed autentico riformista e ne custodiscono oggi l'eredità ideale attraverso la Fondazione a lui intitolata.
Non è dunque un caso se il tema prescelto per questo convegno, promosso nell'imminenza del quarto anniversario della sua tragica scomparsa, rifletta così bene lo spirito che ne ha sempre guidato l'impegno scientifico e culturale.
Un impegno che non ha mai visto nell'analisi teorica un valore in sé, quanto piuttosto uno strumento di interpretazione della società, dei fenomeni che la animano, della ricchezza e della vitalità che essa esprime.
Parlare di lavoro e di famiglia come termini di una medesima realtà; porre il tema di una loro sintesi nuova e più avanzata; suggerire la via per realizzarla sul campo, contemperando interessi ed esigenze differenti: tutto questo rappresenta un modo concreto ed efficace per dare continuità nel tempo al pensiero di Marco Biagi ed al suo spirito critico, sempre così lucido ed acuto.
Attraverso la lente del mercato del lavoro, le sue analisi ci hanno offerto una chiave di lettura complessiva del nostro tempo, in una fase di transizione difficile, densa di incognite, e proprio per questo tanto più bisognosa del suo rigore, del suo equilibrio e del suo coraggio.
A queste qualità rendono oggi il riconoscimento migliore i primi risultati che sta facendo registrare la riforma che porta il suo nome. La legge Biagi - che tutti ricordiamo duramente avversata nel corso dell'esame parlamentare da un ideologismo sterile ed autoreferenziale - rappresenta oggi un dato portante del nostro mercato del lavoro, nel quale ha introdotto i fattori di flessibilità e di modernità da molti invocati a parole e da ben pochi realizzati nei fatti.
I dati parlano con chiarezza. Più di un milione di persone che, all'inizio della legislatura, erano alla ricerca di una occupazione oggi hanno un lavoro. Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione ha conosciuto un costante decremento e oggi si attesta intorno al 7 per cento. Si è confermata la tendenza al consolidamento definitivo di una quota rilevante dei rapporti di lavoro avviati sulla base di moduli a termine.
Un cammino positivo, dunque, che certamente non è concluso e che deve anzi essere percorso con determinazione. Un cammino che, in ogni caso, consente di rispondere con i fatti a chi oggi sostiene che non avremmo guadagnato in flessibilità, ma in precarizzazione.
Una critica ingenerosa, che attribuisce ad un provvedimento entrato in vigore solo due anni or sono effetti negativi le cui cause vanno invece ricercate in un passato ben più remoto. Ma anche una critica di corto respiro, che si muove all'interno di un orizzonte limitato.
Non ha senso infatti contrapporre in astratto precarizzazione e stabilizzazione: il punto vero è il buon funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Marco Biagi ne era ben consapevole: in un'economia in salute, che cresce con regolarità, che non è soffocata da forme di protezione corporative ed antistoriche, ci sono occasioni per tutti ed il cambiare lavoro è un'opportunità, non certo una penalizzazione.
Credo allora che il miglior modo di onorare la memoria del professor Biagi sia evitare di piegare il suo pensiero alle convenienze di questa o di quella parte, facendone terreno di dispute puramente ideologiche che non gli sono mai appartenute.
Il suo impegno serio, lontano dai riflettori, sorretto dalla forza delle idee, ci ricorda piuttosto che oggi l'Italia non ha bisogno né di Cassandre interessate, né di professionisti dell'ottimismo: ha bisogno di verità e di responsabilità.
Ed è proprio nello spirito della responsabilità che dobbiamo affrontare il secondo termine del binomio cui è dedicato questo convegno: il termine "famiglia", che di quel binomio rappresenta il lato ancora debole.
Credo che la Fondazione Biagi sia andata direttamente al cuore del problema. La conciliazione tra esigenze lavorative ed esigenze familiari è il punto dolente che accomuna gli italiani nella loro vita quotidiana. Una situazione che, senza dubbio, è frutto di un approccio al problema oramai datato, che vede nel lavoro e nella famiglia due realtà separate, guidate da logiche diverse e non comunicanti.
In questo senso, è giusto dunque invertire la rotta, come invita a fare il nono rapporto del "Centro internazionale studi famiglia" di cui avete discusso stamane, ed è giusto invertirla riportando la famiglia al centro dell'attenzione, valorizzandone il ruolo decisivo in termini di "capitale sociale" e di snodo centrale del nuovo welfare.
Senza entrare nel merito delle soluzioni che sono state prospettate, vorrei limitarmi ad una considerazione. Un mercato del lavoro efficiente e flessibile, che permetta ai lavoratori di dare prospettive concrete alle proprie scelte di vita, è un fattore determinante perché si realizzi in concreto - e non solo a parole - la centralità dell'istituto familiare.
Per questo sono convinto che realizzare un equilibrio virtuoso in questo ambito così delicato sia possibile, operando per ampliare gli strumenti già oggi disponibili.
Si tratta certamente di venire incontro alle necessità dei genitori che, per stare vicino ai propri figli, scelgono di non lavorare o di lavorare meno. Ma si tratta anche di dare nuove e più avanzate opportunità a coloro che invece, nelle medesime condizioni, intendano comunque affermarsi sul lavoro. Le soluzioni concrete possono essere molte, come dimostrano le positive esperienze di alcuni Paesi europei.
Ciò che conta è che questo obiettivo diventi una priorità reale per la classe dirigente del Paese e che si affermi una consapevolezza: impegnarsi in questa direzione significa impegnarsi per un'Italia più coesa, più solidale, più forte; per una società in cui nessuno resti escluso e che garantisca a ciascuno di esprimere il meglio di sé, secondo le proprie capacità ed i propri talenti.
Era questo l'obiettivo per cui ha sempre lavorato Marco Biagi, questa la profonda convinzione che ne ha guidato scelte e comportamenti. Queste certezze, professate con semplicità e con coraggio, lo hanno esposto al folle disegno di morte ordito dal terrorismo.
Oggi, a distanza di quattro anni, resta immutato il senso di vuoto per la sua perdita ed immutata resta l'amarezza per non aver saputo proteggere un onesto e leale servitore dello Stato e delle Istituzioni democratiche.
Ma resta anche il dovere di rinnovare, nel nome del suo sacrificio, l'impegno ad affermare il valore del dialogo e del confronto come metodo di azione e di decisione nelle relazioni industriali, come strumento di un progresso sociale graduale, senza strappi, destinato ad includere tutti e ad accrescere la sostanza della nostra vita democratica.
Sono queste acquisizioni di civiltà che il terrorismo teme e combatte, perché al terrorismo sottraggono - dalle fondamenta - le ragioni distorte e disumane di cui esso si alimenta. Contro questa minaccia alla convivenza civile, insidiosa e purtroppo non ancora estirpata, gli italiani non abbasseranno la guardia e non muteranno i loro sentimenti di orrore, di sdegno e di condanna.
In questa azione, essi possono trovare un punto di riferimento limpido nella figura di Marco Biagi: un uomo mite, riservato, che ai proclami gridati ha preferito i toni pacati del confronto; una persona sincera, di grande umanità, che ha saputo preservare - a fronte di un impegno civile e professionale di altissimo livello - i valori della quotidianità e della serenità nella dimensione familiare e degli affetti personali; per me, soprattutto, un caro amico, che non potrà mai essere dimenticato.